GIAMBATTISTA UBERTI
PHOTOGRAPHER

Il mio spazio intimo e riservato

Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui. (Italo Calvino)

Queste fotografie sono i miei paesaggi mentali, essi raccontano i miei disagi personali con la vita e le difficoltà incontrate per poterli superare.
Il disagio più grande è la mia sofferenza dinanzi al problema dell'epilessia.
Forse perché bullizzato in giovane età, e anche recentemente, non riesco a vivere una vita serena con me stesso.
Indosso maschere d'identità ingannevoli e fittizie per simulare di essere una persona come tutte le altre, forse anonima ma sicuramente maggiormente accettata.

Per poesia non intendo quell’arte particolare
che consiste nello scrivere in versi,
bensì un processo più generale e più primitivo:
l’interconnessione tra l’essere intimo delle cose
e l’essere intimo dell’Io dell’uomo (…)
In questo senso, la poesia è la vita segreta
di tutte le arti (…)”.
(Jacques Maritain)

Nell’opera di Giambattista Uberti il corpo diventa esperienza poetica attraverso il linguaggio fotografico. Il corpo è confine sottile tra una realtà esterna ed una realtà interna, intima e segreta, labile e forte nel contempo. L’autoritratto è spazio di osservazione profonda dove è possibile percepire le sfumature più intime di sé stesso. Giambattista si spoglia delle sue insicurezze e trova nel mezzo fotografico un alleato prezioso. Si svela al mondo con coraggio. Un mondo per lui spesso ostico. Il tremore dell’epilessia fa da barriera nelle sue relazioni. Fin dalla giovane età è deriso per quei movimenti non controllabili. Il ricordo, seppur doloroso, in queste fotografie è simbolicamente rappresentato da alcuni oggetti: un orologio a pendolo, alcune confezioni di medicine, un tracciato dell’elettrocardiogramma che per l’andamento oscillatorio delle sue linee, lo possiamo ritrovare nell’acqua fotografata fuori da un bicchiere di vetro e una maschera anonima. Quest’ultima, oggetto dalla simbologia antica con una valenza apotropaica e ancestrale, funge per Giambattista da strumento di alienazione parziale per evitare l’allontanamento sociale. Corpo e oggetti dialogano tra loro, pagina dopo pagina, in una danza vorticosa, a tratti drammatica. L’autoritratto da pratica artistica diventa così pratica rituale; una sorta di mise en scene dove attraverso la posa, Giambattista, ritrova la propria libertà espressiva. Il suo atto poetico si conclude svelando il proprio volto, celato troppo a lungo dietro una maschera fittizia che l’ha protetto e ingabbiato in un dolore troppo grande per essere visto. Il rituale è concluso, la maschera, tenuta fra le mani come oggetto prezioso, svela occhi stanchi. Uno sguardo quasi fanciullesco e indifeso ci osserva. Come scrive L.R.Munoz: L’ Io dell’essere poeta è generoso e profondo, perché non vuole suscitare emozioni usando le proprie vicissitudini, ma usando l’ Io creativo capace di allontanarsene per poi poterle esprimere; non confessa ciò che vissuto, ma come l’ha vissuto usando il linguaggio poetico.

Michela Taeggi
Il mio spazio intimo e riservato
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